12 gennaio 2011

Cass. civ. Sez. III, Sent., 12/01/2011, n. 534

"qualora sia stata danneggiata una cosa (mobile o immobile) concessa in leasing la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni patiti compete all'utilizzatore, qualora lo stesso sia tenuto alla manutenzione ordinaria e straordinaria della cosa stessa nonchè allo stesso, al momento della conclusione del contratto e del trasferimento del possesso della res, siano stati trasferiti tutti i rischi di questa"

Svolgimento del processo

Con atto 2 marzo 1998 la s.n.c. Carafà Giovanni & C. Giovanni & C., proprietaria di un seminterrato in (OMISSIS) composto da un deposito di mq. 100 nonchè da un locale di vendita di mq. 63,50 e da un vano ufficio di mq. 24, oltre accessori e la s.n.c. Cart Ufficio di Artuso Sergio, Carafa Luca & C., conduttrice di tali locali, esposto che gli stessi confinavano con la rampa di accesso allo stadio comunale e che, in corrispondenza del confine, si erano verificate sin dal 1996 infiltrazioni d'acqua che avevano causato danni all'immobile e al materiale ivi depositato, hanno convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Napoli, il comune di Pozzuoli chiedendone la condanna sia alla eliminazione della causa delle infiltrazione sia al risarcimento dei danni patiti.

Svoltasi la istruttoria del caso nel corso della quale alla prima udienza di trattazione è intervenuta in giudizio la s.r.l. Tutto Ufficio, assumendo di essere cessionaria - sin dal 30 marzo 1998 - della azienda già della s.n.c. Cart Ufficio di Artuso Sergio, Carafa Luca & C, di avere preso in locazione i locali descritti nell'atto introduttivo del giudizio e dichiarando di fare proprie tutte le domande delle attrici, e si costituiva in giudizio - altresì - il Comune di Pozzuoli contestando la propria responsabilità in ordine ai fatti denunziati, l'adito tribunale con sentenza 10 - 18 aprile 2001 ha rigettato la domanda della s.n.c. Carafà Giovanni & C., di risarcimento dei danni riportati dall'immobile per difetto di legittimazione attiva, dichiarato cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di condanna del comune alla eliminazione delle cause delle infiltrazioni e condannato il convenuto al pagamento in favore della s.n.c. Carafà Giovanni & C. della somma di L. 7.800.000 oltre interessi dalla sentenza e in favore della s.r.l. Tutto Ufficio della somma di L. 67.438.000 oltre interessi dalla sentenza.

Gravata tale pronunzia in via principale dal Comune di Pozzuoli e in via incidentale dalla s.n.c. Carafà Giovanni & C. nonchè dalla s.n.c. Cart Ufficio di Artuso Sergio, Carafà Luca & C, nel contraddittorio della s.r.l. Tutto Ufficio che costituitasi in giudizio ha chiesto il rigetto dell'appello principale, la Corte di appello di Napoli, con sentenza 16 giugno - 7 luglio 2006, rigettato l'appello principale, ha parzialmente accolto gli appelli incidentali e, per l'effetto ha condannato il Comune di Pozzuoli al pagamento in favore della s.n.c. Carafà Giovanni & C. della rivalutazione monetaria sulla somma di Euro 4.028,36 come in motivazione e in favore della s.n.c. Cart Ufficio di Artuso Sergio, Carafa Luca & C. della somma di Euro 6.193,61 oltre rivalutazione e interessi come in motivazione.

Per la cassazione di tale sentenza, notificata il 5 agosto 2006 e date successive ha proposto ricorso, affidato a 6 motivi, il Comune di Pozzuoli, con atto 14 novembre 2006.

Resistono, con controricorso e ricorso incidentale, affidato a cinque motivi, illustrati da memoria la s.n.c. Carafà Giovanni & C.; con distinti controricorsi sia la s.n.c. Cart Ufficio di Sergio Artuso, Luca Carafa & C. che ha depositato memoria, sia la s.r.l. Tutto Ufficio.

Motivi della decisione

1. I vari ricorsi, avverso la stessa sentenza, devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

2. Come riferito in parte espositiva - nel corso del giudizio di primo grado - la s.r.l. Tutto Ufficio è intervenuta in causa nel corso della prima udienza di trattazione assumendo di essere subentrata nell'azienda commerciale della s.n.c. Cart Ufficio e facendo proprie tutte le domanda da questa avanzate nell'atto introdut-tivo, domande che si sostanziavano nella richiesta di risarcimento dei danni derivati alla attività commerciale dal ridotto godimento dell'immobile (a causa delle infiltrazioni d'acqua provenienti dall'immobile di proprietà del comune di Pozzuoli).

La s.r.l. Tutto Ufficio - ha precisato al riguardo il giudice di appello - ha spiegato un intervento di tipo litisconsortile, o adesivo autonomo, poichè ha fatto valere il suo diritto al risarcimento dei danni subiti nei confronti di una delle parti in giudizio e - come osservato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione - la formulazione della domanda costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e di quello litisconsortile, sicchè esso può esercitarsi fino alla udienza di precisazione delle conclusioni e la preclusione sancita dall'art. 268 c.p.c., comma 2 - che riguarda le attività istruttorie precluse al momento dell'intervento - non si estende alla attività assertiva dell'interveniente volontariato, nei cui confronti perciò non è operante il divieto di proporre domande nuove in seno al procedimento.

Peraltro - hanno ancora osservato quei giudici - essendo stato effettuato l'intervento de quo alla prima udienza di trattazione, nella quale sì cristallizza il thema decidendum e la parti formulano compiutamente le loro richieste, esso deve ritenersi tempestivo e tempestivamente proposta deve ritenersi la domanda di risarcimento della interventrice.

Va poi rilevato al riguardo - hanno concluso la loro indagine sul punto i giudici di appello - che la domanda originaria delle attrici, fatta propria dalla interventrice, riguardava anche a condanna del convenuto al risarcimento non quantificato dei danni alla attività commerciale della conduttrice svolta nell'immobile danneggiato causati dalle infiltrazioni provenienti dal bene comunale: la interventrice, nella udienza di precisazione delle conclusioni, senza alcuna contestazione da parte del convenuto, ha specificato le varie voci del danno subito dalla sua attività, elencandole e quantificandole, ma, secondo l'insegnamento del S.C., le varie voci di danno non integrano una pluralità e diversità strutturale di petitum costituendone soltanto delle articolazioni o categorie interne quanto alla sua specificazione, sì che non può ritenersi che le richieste articolate nelle conclusioni definitive costituiscano domande nuove.

3. Il ricorrente principale censura nella parte de qua la sentenza impugnata con il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 189 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazioneall'art. 360 c.p.c., n. 5.

Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: dica codesta Ecc.ma Corte di Cassazione se, in sede di precisazione delle conclusioni, possano essere proposte domande nuove ovvero possano essere specificate le varie voci di danno della originaria domanda risarcitoria genericamente formulata; dica, altresì, se facendo proprie l'interventore tutte le domande avanzate dalle attrici possa ritenersi formulata dall'interventore medesimo e, quindi ammissibile la domanda diretta a ottenere la perdita dell'avviamento commerciale.

4. Il motivo, prima ancora che manifestamente infondato alla luce della pacifica giurisprudenza di questa Corte regolatrice, secondo cui, in particolare, in tema di risarcimento del danno derivante da fatto illecito, ricorre la fattispecie processuale della emendatio libelli, e non anche della (non consentita) mutatio, nella ipotesi di originaria specificazione del danno in determinate voci, e di successiva deduzione, nel corso del medesimo grado di giudizio, di voci ulteriori, con correlativo ampliamento del petitum mediato, ma all'esito di una variazione nella sola estensione del petitum immediato, ferma restandone l'identità e l'individualità ontologica, atteso che le varie voci di danno non integrano, pertanto, una pluralità e diversità strutturale di petitum, ma ne costituiscono soltanto delle articolazioni (o categorie interne) quanto alla sua specificazione quantitativa (così, ad esempio, Cass. 6 agosto 1997, n. 7275) è inammissibile.

Sia tenuto presente che il vizio in questione doveva essere dedotto, eventualmente, sotto il profilo di cuiall'art. 360 c.p.c., n. 4 (per nullità della sentenza o del procedimento) e non sotto quello di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3 (per violazione o falsa applicazione di norme di diritto), sia stante la palese inadeguatezza dei quesiti che lo concludono.

Tali quesiti, infatti, sono assolutamente generici e - pertanto - non conformi al modello voluto dal legislatore.

Al riguardo, è sufficiente esclusivamente ricordare che in tema di ricorso per cassazione il quesito di diritto previsto dall'art. 366 bis c.p.c., deve comprendere l'indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo e la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile.

Inammissibilità che sussiste:

- sia quando, essendo la formulazione generica e limitata alla riproduzione del contenuto del precetto di legge, il quesito si rivela inidoneo ad assumere qualsiasi rilevanza ai fini della decisione del corrispondente motivo, giacchè manca di indicare quale sia l'errore di diritto della sentenza impugnata in relazione alla concreta fattispecie (Cass., sez. un., 20 maggio 2010, n. 12339; Cass. 13 maggio 2009, n. 11087);

- sia qualora il quesito formulato al termine di questo si sostanzi in una generica istanza di decisione sulla esistenza del vizio denunciato, demandando alla Suprema Corte di accertare se vi sia stata o meno violazione di una serie di norme sostanziali e di enunciare, poi, il relativo principio di diritto. In tale modo, infatti, parte ricorrente si sottrae all'onere imposto dal citato art. 366 bis c.p.c., di sottoporre alla Corte una propria finale conclusiva valutazione della dedotta violazione della legge, sulla cui correttezza sollecitare il si o il no di questo giudice di legittimità (Cass. 23 marzo 2010, n. 6951).

5. Pacifico che il primo giudice, concessi alle parti - alla udienza del 18 febbraio 1999 - i termini perentori per l'articolazione delle proprie richieste istruttorie e che nessuna delle parti ha provveduto alla deduzione delle proprie prove e che - ancora - lo stesso giudice alla udienza del 25 novembre 1999, su richiesta delle società attrici, ha nuovamente concesso i termini di cui all'art. 184 c.p.c., e questa volta, nei termini assegnati la s.r.l. Tutto Ufficio ha articolato la prova testimoniale poi espletata, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che il tribunale, che non ha prorogato i termini precedentemente concessi, ma ne ha concesso di nuovi, abbia sostanzialmente provveduto, su richiesta delle parti attrici, a rimetterle in termini per la formulazione delle istanze istruttorie, così come previsto dalla norma di cui all'art. 184 bis c.p.c., conseguentemente non può ritenersi che tali istanze siano state tardivamente proposte.

6. Con il secondo motivo il ricorrente principale censura nella parte de qua la sentenza impugnata lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 153, 184 e 184 bis c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., il ricorrente formula il seguente quesito di diritto: dica codesta Ecc.ma Corte di cassazione se i doppi termini previsti dall'art. 184 c.p.c. - per la produzione di documenti e l'indicazione di nuovi mezzi di prova - sono perentori e se possono, o mene, essere prorogati ai sensi dell'art. 153 c.p.c., anche se vi è accordo delle parti; dica codesta Ecc.ma Corte di cassazione se, ai sensi degli artt. 184 e 184 bis c.p.c., in mancanza di istanza di rimessone in termini per le richieste istruttorie, senza che venga nemmeno dedotta e ovviamente provata l'esistenza di fatti impeditivi, possano essere nuovamente concessi i doppi termini di cuiall'art. 184 c.p.c..

7. Il motivo è inammissibile.

Nella prima parte per assoluta inadeguatezza del quesito formulato ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., attesa la sua astrattezza e, comunque, la non riferibilità dello stesso alla fattispecie, certo essendo che i giudici di appello lungi dall'affermare che legittimamente il giudice di primo grado aveva prorogato il termine precedentemente concesso per la articolazione dei mezzi di prova, hanno ritenuto che detto giudice si fosse avvalso della facoltà di cui all'art. 184 bis c.p.c., e avesse concesso nuovo termine previa rimessione in termini delle parti.

Quanto alla seconda parte si osserva che la deduzione è inammissibile sotto diversi, concorrenti, profili.

In primis si osserva che - contrariamente a quanto del tutto apoditticamente invocato dal ricorrente principale - i giudici di secondo grado hanno accertato, in linea di fatto, che vi era stata, richiesta delle parti attrici, per la concessione di un nuovo termine ex art. 184 c.p.c..

In secondo luogo, e in via assorbente, deve evidenziarsi che i giudici del merito sono pervenuti alla - ora contestata - conclusione (il giudice di primo grado ha concesso nuovo termine per le deduzioni istruttorie avvalendosi della facoltà di cui all'art. 184 bis c.p.c.) sulla base della interpretazione data sia alla condotta processuale delle parti sia - soprattutto - al provvedimento del detto giudice.

Certo quanto sopra è di palmare evidenza che il ricorrente comune non poteva limitarsi a dedurre - come ha dedotto - la violazione dell'art. 184 bis c.p.c., da parte del giudice di secondo grado sotto il profilo che nella specie facevano difetto le condizioni di legge perchè il giudice disponesse la rimessione in termini vizio, peraltro, come evidenziato sopra, da prospettare a pena di inammissibilità sotto il profilo delle nullità della sentenza o del procedimento e non certamente quale violazione o falsa applicazione di norme di diritto ma doveva censurare la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di motivazione, per essere la stessa incorsa in omessa - o, eventualmente, insufficiente o, ancora, per ipotesi contraddittoria - motivazione allorchè ha interpretato le risultanze di causa nel senso che il tribunale aveva provveduto, su richiesta delle parti attrici, a rimetterle in termini per la formulazione delle istanze istruttorie, cosi come previsto dalla norma di cui all'art. 184 bis.

In altri termini parte ricorrente doveva dedurre - e dimostrare - che i giudici di appello avevano erroneamente interpretato le risultanze di causa, allorchè avevano affermato che il giudice di primo grado si era avvalso della facoltà di cui all'art. 184 bis c.p.c..

Certo, per contro che sotto tale profilo non è svolta alcuna censura avverso la sentenza impugnata è palese la inammissibilità della censura.

8. Per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni - in primo grado - il comune convenuto ha eccepito la insalubrità e abusività dei locali, di proprietà dell'attrice s.n.c. Carafà e nei quali era esercitata l'attività commerciale della società Tutto Ufficio sì che la responsabilità dei danni lamentati era da ascrivere unicamente alle stesse attrici.

Affermata dal primo giudice la intempestività di una tale eccezione la Corte di appello ha confermato sul punto la pronunzia del tribunale sul rilievo che l'esimente contemplata dall'art. 1227, comma 2, integra una ipotesi di eccezione in senso stretto, e - pertanto - deve essere fatta valere dall'interessato nei termini consentitidall'art. 180 c.p.c..

9. Il ricorrente principale censura nella parte de qua la sentenza impugnata con il terzo motivo con il quale lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c. e artt. 112 e 180 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.

Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., il ricorrente formula il seguente quesito di diritto; dica codesta Ecc.ma Corte di cassazione se gli argomenti difensivi svolti dal Comune di Pozzuoli (inagibilità dei locali, natura abusiva degli stessi, consapevole utilizzazione di un locale inidoneo alle attività cui le società attrici lo avevano impropriamente destinato, ecc.) vadano qualificati come mere difese ovvero come eccezioni in senso stretto, e se conseguentemente essi andavano formulati o meno inderogabilmente nei termini di cui all'art. 180 c.p.c..

10. Il motivo, prima ancora che manifestamente infondato dovendosi ribadire che in tema di risarcimento del danno, l'ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell'evento dannoso (di cuiall'art. 1227 c.c., comma 1) va distinta da quella (disciplinata dal comma 2 della medesima norma) riferibile ad un contegno dello stesso danneggiato che abbia prodotto il solo aggravamento del danno senza contribuire alla sua causazione, giacchè - mentre nel primo caso il giudice deve procedere d'ufficio all'indagine in ordine al concorso di colpa del danneggiato, sempre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile la colpa concorrente, sul piano causale, dello stesso - la seconda di tali situazioni forma oggetto di un'eccezione in senso stretto, in quanto il dedotto comportamento del creditore costituisce un autonomo dovere giuridico, posto a suo carico dalla legge quale espressione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede (cfr., ad esempio, Cass. 25 maggio 2010, n. 12714) è inammissibile.

Sia per la carenza di autosufficienza del ricorso sul punto (non sono state trascritte le espressioni con le quali erano state formulate le eccezioni riferite in ricorso solo in estrema sintesi, sì che non è dato comprendere quale fosse il contenuto delle eccezione), sia per totale pretermissione dell'obbligo di motivazione di indicare i motivi per i quali è stata chiesta la cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., n. 4 (limitandosi parte ricorrente a opporre, alla conclusione, motivatamente fatta propria dai giudici del merito, il proprio, soggettivo, apprezzamento dei propri scritti: gli argomenti difensivi .. non potevano imbattersi .. in nessuna barriera preclusiva trattandosi di rilievi alla espletata CTU, di mere difese e non di eccezioni in senso stretto..), sia - infine - per la palese inadeguatezza del quesito che lo conclude.

12. Esaminando l'ultima censura dell'appello incidentale proposto dalla s.n.c. Carafa i giudici di secondo grado hanno affermato che la stessa è fondata; basta infatti considerare che il risarcimento del danno costituisce debito di valore, che va conseguentemente salvaguardato dalla erosione prodotta dalla svalutazione monetaria.

13. Il ricorrente principale censura, la sopratrascritta statuizione, con il quarto e il quinto motivo con i quali denuncia:

- da un lato, violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, atteso che l'appello incidentale della Carafa era diretto unicamente a ottenere il riconoscimento delle somme che erano state ad essa disconosciute dal tribunale per difetto di legittimazione attiva, formulando il seguente quesito dica codesta Ecc.ma Corte di Cassazione se nell'appello incidentale proposto dalla Carafa Giovanni & C. s.n.c. possa o meno ritenersi formulata la domanda dell'indicata società diretta a vedersi riconosciuta la rivalutazione monetaria sulla somma di 4.028,36 di cui alla sentenza di primo grado (quarto motivo);

- dall'altro, violazione e falsa applicazione degli artt. 1224 e 1227 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, formulando il seguente quesito di diritto: dica codesta Ecc.ma Corte di Cassazione se sulla somma di Euro 4.028,36, dovuta a titolo di mancato utilizzo dei locali, possa essere riconosciuta la rivalutazione monetaria in mancanza di prova del maggior danno ex art. 1224 c.p.c., comma 2 (quinto motivo).

14. Entrambi i riferiti motivi, prima ancora che manifestamente infondati (ad esempio, nel senso che nella domanda di risarcimento del danno per fatto illecito deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento sia degli interessi compensativi sia del danno da svalutazione monetaria - quali componenti indispensabili del risarcimento, tra loro concorrenti attesa la diversità delle rispettive funzioni - e che il giudice di merito deve attribuire gli uni e l'altro anche se non espressamente richiesti, pure in grado di appello, senza per ciò solo incorrere in ultrapetizione, Cass. 7 ottobre 2005, n. 19636) sono inammissibili.

Sotto molteplici, concorrenti, profili.

In particolare:

- la omessa pronuncia su una domanda, ovvero su specifiche eccezioni fatte valere dalla parte, o, la pronunzia su domande non formulate dalla parte integra una violazione dell'art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell'art. 360 c.p.c., n. 4, e, conseguentemente, è inammissibile il motivo di ricorso con il quale la relativa censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto, ovvero come vizio della motivazione (Tra le tantissime, Cass. 19 gennaio 2007, n. 1196; Cass. 27 ottobre 2006, n. 23071; Cass. 27 gennaio 2006, n. 1755; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1701; Cass. 11 novembre 2005, n. 22897);

- allorchè si denunzia la non corrispondenza della pronunzia impugnata con ricorso per cassazione alle domande proprie - o dell'avversario - ai sensi dell'art. 366 c.p.c. e del principio della autosufficienza del ricorso è onere della parte ricorrente trascrivere - a pena di inammissibilità del motivo - quali siano state le espressioni utilizzate dalla parte nel formulare (o non formulare) una domanda che invece il giudice ha ritenuto erroneamente non appartenere (o, come nella specie, appartenere) al thema decidendum;

- sia il quesito che conclude il quarto motivo sia quello che conclude il quinto sono - alla luce delle considerazioni sviluppate sopra e cui è sufficiente in questa sede fare riferimento - assolutamente generici, con conseguente inammissibilità dei motivi a corredo dei quali sono esposti (cfr. Cass. 26 gennaio 2010, n. 1528; Cass., sez. un., 24 dicembre 2009, n. 27368).

15. Con il sesto, e ultimo, motivo il ricorrente principale denunzia la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha liquidato i danni patiti dalla Cart Ufficio per il ridotto godimento dell'immobile condotto in locazione a causa delle infiltrazioni d'acqua provenienti dallo stadio comunale di proprietà del comune ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, e formulando, al riguardo - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. - il seguente quesito di diritto: dica codesta Ecc.ma Corte di Cassazione se, mancando la prova di un danno effettivo e concreto, possa o meno essere accolta, sulla scorta dei principi desumibili dall'art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., la domanda di risarcimento del danno subito da una attività commerciale per ridotto godimento dell'immobile condotto in locazione.

16. Al pari dei precedenti il motivo, prima ancora che manifestamente infondato (certo essendo - in termini opposti a quanto suppone la difesa del ricorrente - che si ha violazione del precetto di cui all'art. 2697 c.c., solo nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata, secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, perchè in questo caso vi sarà solo un erroneo apprezzamento sull'esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, cfr., ad esempio, Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 10 febbraio 2006, n. 2935; Cass. 14 febbraio 2001, n. 2155) è inammissibile.

Non solo, infatti, il quesito che conclude il motivo, per la sua assoluta genericità deve considerarsi omesso (con conseguente; inammissibilità del motivo, cfr. Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, n. 26020), ma il motivo stesso è assolutamente carente sia quanto alla esposizione dei motivi per i quali è chiesta la cassazione ( art. 366 c.p.c., n. 4, risolvendosi detta indicazione in una espressione assolutamente apodittica) sia quanto alla specifica indicazione dei documenti sui quali si fonda il ricorso ( art. 366 c.p.c., n. 6, non essendo indicato ove sia in atti, la consulenza tecnica asseritamente critica della difesa del ricorrente, cfr. ad esempio, Cass. 22 febbraio 2010, n. 4201).

17. In primo grado - hanno affermato i giudici di appello, la s.n.c. Carafà non ha prodotto alcun titolo di trasferimento in suo favore del bene oggetto di controversia da parte della società finanziaria che ne aveva acquistato la titolarità, concedendoglielo in leasing, nè poteva ritenersi sufficiente per tale trasferimento l'avvenuto esercizio del diritto di opzione riservato alla conduttrice di leasing al termine della locazione.

Invero - hanno concluso la loro indagine sul punto i giudici di secondo grado - per gli atti di trasferimento della proprietà di beni immobili l'art. 1350 c.c., prescrive la forma scritta ad substantiam a pena di nullità e, pertanto, l'attrice avrebbe dovuto produrre, in presenza di contestazione del suo diritto dominicale, un valido contratto di alienazione dei locali per il cui danneggiamento aveva chiesto il risarcimento, sì che correttamente il tribunale ha rigettato la domanda di risarcimento danni all'immobile e appare inammissibile la produzione del contratto di trasferimento in fase di appello.

18. La ricorrente incidentale censura nella parte de qua la sentenza impugnata con cinque motivi.

Con il secondo motivo che per considerazioni d'ordine logico deve essere esaminato con precedenza, rispetto ai restanti la ricorrente incidentale denunzia omessa,contraddittoria ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e violazione e falsa applicazione di legge in relazione all'art. 2043 c.c. ( art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

Il motivo si conclude - ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c. - con il seguente quesito di diritto: dica la Corte se, legittimato a far valere la responsabilità aquiliana ai sensi dell'art. 2043 c.c., nei confronti del danneggiante sia il proprietario del bene immobile danneggiato, ovvero che lo detiene in forza di contratto di leasing, ove questi sia obbligato per contratto a eseguire le opere di manutenzione straordinaria, a corrispondere il canone per il godimento del cespite anche in caso di ridotto godimento del medesimo e, in ogni caso, a restituire il bene integro al proprietario, in caso di mancato esercizio del diritto di opzione.

19. Il motivo è fondato e meritevole di accoglimento.

Si osserva, infatti, in termini opposti, rispetto a quanto, del tutto apoditticamente assume la sentenza impugnata - secondo la quale in caso di danneggiamento di una cosa (mobile o immobile) esclusivamente il proprietario di questa è legittimato a agire per il ristoro dei danni patiti - che la giurisprudenza di questa Corte regolatrice è - da lustri - fermissima nel senso che anche colui che per circostanze contingenti si trovi ad esercitare un potere soltanto materiale sulla cosa può dal danneggiamento di questa risentire un danno al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o personale, che egli abbia all'esercizio di quel potere e cioè senza che sia tenuto a dimostrare il titolo di proprietà (In termini, ad esempio, Cass. 5 luglio 2007, n. 15233, nonchè Cass. 28 aprile 2000, n. 5421).

Non si dubita - infatti - che legittimato all'azione di risarcimento del danno ingiusto non è soltanto il proprietario del bene danneggiato, ma anche colui che al momento del verificarsi del fatto illecito ne abbia soltanto la materiale disponibilità e sia tenuto a riconsegnarlo integro al proprietario, non essendo necessaria l'identità tra titolo al risarcimento e titolo giuridico di proprietà (Cass. 25 settembre 1997, n. 9405, nonchè Cass. 28 luglio 2001, n. 10334).

Proprio con specifico riferimento all'eventualità -come nella specie - sia stata danneggiata una res concessa in leasing - del resto, è assolutamente incontroverso che la legittimazione ad agire nei confronti del danneggiante spetti all'utilizzatore e non alla società di leasing, proprietaria della cosa, specie nella eventualità - come è incontroverso si è verificato nella specie - l'utilizzatore sia tenuto alla manutenzione ordinaria e straordinaria della cosa stessa nonchè allo stesso al momento della conclusione del contratto e del trasferimento del possesso della res siano stati trasferiti tutti i rischi di questa (come del resto si verifica, exart. 1523 c.c., in caso di vendita con riserva di proprietà) (cfr. Cass. 1 luglio 2002, n. 9554, specie in motivazione: la Corte territoriale ha correttamente affermato che la posizione di danneggiato dal sinistro competeva all'utilizzatore ... in quanto obbligato, in forza del contratto di leasing e nonostante il grave danneggiamento della vettura da lui condotta, al pagamento dei canoni di leasing ed al ripristino del bene in favore della società concedente).

Sempre in questa ottica, del resto in moltissime occasioni si è affermato - da parte di questa Corte regolatrice - che in caso di leasing finanziario l'utilizzatore, ancorchè non possa - salvo che tale facoltà sia espressamente prevista nel contratto di leasing - chiedere la risoluzione del contratto stipulato tra il fornitore e la società di leasing, è legittimato a far valere, nei confronti del fornitore, la pretesa all'adempimento del contratto di fornitura, oltre che al risarcimento del danno conseguente sofferto (Cass. 16 novembre 2007, n. 23794; Cass. 16 novembre 2007, n. 23794; Cass. 27 luglio 2006, n. 17145; Cass. 1 ottobre 2004, n. 19657).

Non essendosi i giudici del merito attenuti ai principi di cui sopra è palese, come anticipato, che il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere accolto, con assorbimento dei restanti, cassazione, in relazione al motivo accolto, della sentenza impugnata e rinvio della causa alla stessa la Corte di appello di Napoli per nuovo esame in applicazione del seguente principio di diritto: "qualora sia stata danneggiata una cosa (mobile o immobile) concessa in leasing la legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni patiti compete all'utilizzatore, qualora lo stesso sia tenuto alla manutenzione ordinaria e straordinaria della cosa stessa nonchè allo stesso, al momento della conclusione del contratto e del trasferimento del possesso della res, siano stati trasferiti tutti i rischi di questa". 

20. Quanto alle spese di lite di questo giudizio di cassazione mentre nei rapporti tra il Comune di Pozzuoli (da una parte) e la Tutto Ufficio s.r.l. e Cart Ufficio s.n.c. di Artuso Sergio, Carafa Luca & C. (dall' altra), liquidate come in dispositivo, faranno carico esclusivo al soccombente comune di Pozzuoli, nei rapporti tra il Comune di Pozzuoli e la Carafa Giovanni & C. s.n.c. la pronuncia è rimessa al giudice di rinvio.

P.Q.M.

LA CORTE riunisce i ricorsi;

rigetta il ricorso principale;

accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, assorbiti gli altri;

cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia la causa, nei rapporti tra il Comune di Pozzuoli e la Carafa Giovanni & C. s.n.c., alla stessa corte di appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà, altresì, sulle spese di questo giudizio di legittimità;

condanna il Comune di Pozzuoli al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità nei. confronti de la Tutto Ufficio s.r.l. e della Cart Ufficio s.n.c. di Artuso Sergio, Carafa Luca & C. liquidate in Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 per onorari e oltre spese generali e accessori come per legge, in favore di ciascuna parte.