28 novembre 2003

Cass. civ. Sez. III, 28/11/2003, n. 18229

"la regolamentazione legislativa del "leasing" è intervenuta solo nei rapporti internazionali con la legge 14 luglio 1993, n. 259 di ratifica ed esecuzione della convenzione Unidroit sul "leasing" finanziario internazionale fatta ad Ottawa il 28 maggio 1988 (legge pubblicata nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 178 del 31 luglio 1993), mentre nell'ambito dei rapporti interni non opera la detta legge. Per dette forme di "leasing" non internazionali, opera il diritto interno, il quale si limita a dare una definizione legislativa nell'art. 17, comma 2, della legge 2 maggio 1976, n. 183. Inoltre, come emerge dagli artt. 1 e 4 della L. n. 259 del 1993, questa legge attiene esclusivamente al "leasing" finanziario relativo a beni mobili"

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 29 ottobre 1993 Avezza Aldo, in proprio e quale rappresentante della s.n.c. Avezza, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Alba la Milano Centrale Leasing, proponendo opposizione avverso l'atto di precetto notificatogli il 24 settembre 1993, con cui si intimava di pagare la somma di L. 16.121.455, portata da cambiali in cui era incorporata l'obbligazione di pagamento di canoni di "leasing" immobiliare, relativi ad un capannone in Baldichieri d'Asti, già utilizzato dalla s.n.c. Avezza.

Sosteneva l'opponente che i canoni complessivi ammontavano a lire 350 milioni; che aveva provveduto a restituire l'immobile dopo il pagamento di lire 62 milioni di canoni; che il contratto prevedeva l'opzione di acquisto alla scadenza; che era applicabile l'art. 1526 c.c.; che la locatrice aveva venduto l'immobile per lire 160 milioni.

Si costituiva la convenuta che resisteva alla domanda e chiedeva in via riconvenzionale lire 101 milioni per il pagamento di quanto ancora dovuto a titolo di canoni.

Con sentenza del 17 gennaio 1995 il Tribunale di Alba dichiarava inefficace il precetto e condannava l'attrice al pagamento di L. 5.358.000, a titolo di penale.

Avverso questa sentenza proponeva appello la soc. Locazioni Finanziarie (nuova denominazione dell'opposta).

La Corte di Appello di Torino, con sentenza depositata il 30 luglio 1999, rigettava l'appello.

Riteneva la corte territoriale che correttamente il giudice di primo grado, seguendo l'insegnamento della S.C., aveva distinto tra "leasing" finanziario traslativo e quello di godimento; che sulla base del raffronto tra il valore del bene alla scadenza e il prezzo di opzione (irrisorio), della natura del bene (immobile), della durata limitata del contratto, della previsione di un valore convenzionale del bene dipendente in misura proporzionale all'entità dei canoni versati, doveva ritenersi che il "leasing" in questione fosse di natura traslativa, con conseguente applicabilità dell'art. 1526 c.c. per analogia.

Riteneva la corte di merito che l'appello subordinato sull'esiguità dell'equo indennizzo era generico, non individuando criteri specifici di liquidazione.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Deutsche Bank Leasing (incorporante per fusione l'appellante).

Non si è costituito l'intimato fallimento della s.n.c. Officina Meccanica di Avezza Aldo, nonché di Avezza Aldo e Benfatto Giancarlo.

Motivi della decisione

1) Con il prima motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322, 1458, 1523 e 1526 c.c. e del principio della specialità della norma sulla risoluzione del contratto (art. 1526 c.c.), posti nel titolo III dei singoli contratti, capo I della vendita, non nella sezione I denominata disposizioni generali, bensì nella sezione II denominata "della vendita di cose mobili" e non nella sezione III, denominata della "vendita di cose immobili", con conseguente necessità di revisione del principio giurisprudenziale sulla bipartizione del "leasing", in traslativo e finanziario, stante anche il vizio di insufficiente e contraddittoria applicazione dell'art. 1526 c.c. in generale, il tutto a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Lamenta la ricorrente che non è possibile sostenere la bipartizione del "leasing" in finanziario e traslativo, secondo la giurisprudenza delle S.U. n. 65/1993, unica essendo la causa del contratto, che è quella del finanziamento e del godimento e non dello scambio, con conseguente applicabilità dell'art. 1458 c.c., comma 1, e non dell'art. 1526 c.c., che è norma speciale solo per il contratto tipico di vendita di cose mobili, con patto di riservato dominio. Secondo la ricorrente è irrilevante l'esistenza delle due possibilità, offerte dal contratto (fine del contratto o opzione), perché giuridicamente previste dagli artt. 1285 e 1286 c.c.

2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato.

Per l'analisi di tale motivo occorre premettere la nota distinzione tra "leasing" di godimento e "leasing" traslativo, elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte a decorrere dalla sentenza delle sezioni unite n. 65 del 1993, in base allo scopo perseguito dalle parti ed alle conseguenti caratteristiche fondamentali del contratto.

Nell'ambito del "leasing" finanziario sono quindi individuabili due tipi (di "leasing": il primo ("leasing" di godimento), pattuito con funzione di finanziamento, rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell'uso dei beni stessi; il secondo ("leasing" traslativo), pattuito con riferimento a beni atti conservare a quella scadenza un valore residuo superiore all'importo convenuto per l'opzione e dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto. La distinzione si riverbera sul regime della risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, essendo applicabile al "leasing" di godimento la disciplina dei contratti ad esecuzione continuata o periodica dettata dall'art. 1458 c.c. (con particolare riferimento alla non ripetibilità dei canoni già versati), ed al "leasing" traslativo la disciplina della vendita a rate con riserva di proprietà dettata dall'art. 1526 c.c. (con particolare riferimento alla restituzione dei canoni riscossi).

2.2. La giurisprudenza di questa Corte è in proposito consolidata e costante (sent. 10482/1993; 1731/1994; 2743/1994; 6034/1997; 12790/1997; 11614/1998; 4855/2000; 10265/2000) e non vi è ragione per discostarsene.

2.3. Che il concedente non sia un venditore, ma solo un intermediario, che compra su indicazione dell'utilizzatore e si garantisce con un acquisto provvisorio, e che il concedente sia essenzialmente un finanziatore, non costituisce una valida eccezione a detta ricostruzione giurisprudenziale della bipartizione del "leasing" finanziario, in traslativo o di godimento.

Infatti anche nel caso di "leasing" finanziario di godimento può validamente dirsi che il "lessor" non era, prima del contratto, un locatore di quel bene dato in "leasing".

La causa di finanziamento è presente in ogni "leasing" finanziario, ma ovviamente non è la sola, poiché il "lessor" non si limita a prestare denaro al "lessee".

Infatti nell'obbligarsi ad acquistare la proprietà di un bene il concedente aderisce ad un patto di destinazione convenzionale della provvista monetaria e le modalità di rientro del finanziamento individuano se lo stesso abbia anche la causa di godimento ovvero quella traslativa.

Per stabilire se si sia in presenza di "leasing" di godimento o di "leasing" traslativo, occorre accertare la volontà delle parti trasfusa nelle clausole contrattuali.

Detta ricostruzione della volontà delle parti rientra nell'ambito dei poteri del giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei criteri ermeneutici, ovvero per vizio motivazionale.

2.4. Non è, peraltro, la sola opzione di per sé indice sicuro della volontà delle parti di porre in essere un "leasing" traslativo, in quanto essa denota solo che le stesse hanno convenuto che il concedente rimanga vincolato alla propria proposta di vendita, mentre l'utilizzatore è libero di accettarla o meno, e, quindi, non ha espresso alcuna volontà in merito. In particolare, ricorre la figura del "leasing" di godimento allorquando l'insieme dei canoni è inferiore, in modo consistente, alla remunerazione del capitale investito nell'operazione di acquista e concessione in locazione del bene, lasciando non coperta non parte non irrilevante di questa capitale, mentre il prezzo pattuito per l'opzione è di corrispondente altezza.

Per contro, ricorre la figura del "leasing" traslativo se l'insieme dei canoni remunera interamente il capitale impiegato, ed il prevedibile valore del bene alla scadenza del contratto sopravanza in modo non indifferente il prezzo di opzione, con ciò dimostrando che i canoni hanno incluso non solo il corrispettivo per l'uso ma anche gran parte del prezzo del bene.

2.5. Ora, la Corte d'Appello, dopo aver premesso la distinzione teorica tra "leasing" assimilabile ai contratti ad esecuzione continuata o periodica e "leasing" assimilabile alla vendica con riserva di proprietà, e dopo aver osservato che l'interpretazione andava condotta alla stregua dell'intenzione dei contraenti, ha ritenuto che trattavasi di un "leasing" traslativo tenendo conto del raffronto tra il valore del bene alla scadenza ed il prezzo di opzione, evidenziando l'irrisorietà dello stesso, tenendo altresì conto che nella fattispecie si trattava di un immobile, il cui valore dipendeva in misura proporzionale all'entità dei canoni versati.

Osserva, altresì, la sentenza impugnata che all'art. 3 del contratto in questione, il canone era fissato in funzione del prezzo del terreno della costruzione e degli oneri fiscali e notarili relativi all'acquisto del terreno, tutti elementi attinenti all'aspetto traslativo finale.

Ne consegue che nella fattispecie la sentenza impugnata è immune da censure relativamente alla ricostruzione della volontà contrattuale delle parti.

3.1. Infondata, è anche la censura secondo cui non sarebbe mai applicabile al contratto di "leasing" la norma di cui all'art. 1526 c.c., trattandosi di norma eccezionale, dettata solo per contratti di compravendita di mobili.

Ritiene questa Corte che correttamente al "leasing" finanziario, nella forma cosiddetta traslativa, è stata ritenuta applicabile, per le ragioni che seguono, la norma che disciplina la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà (art. 1526 c.c.) e conseguentemente inapplicabile il regime dell'art. 1458 c.c., comma 1, seconda ipotesi, c.c.

Infatti ai contratti non espressamente disciplinati dal codice civile (contratti atipici o innominati) possono legittimamente applicarsi, oltre alle norme generali in materia di contratti, anche le norme regolatrici dei contratti nominati, quante volte il concreto atteggiarsi del rapporto, quale risultante dagli interessi coinvolti, faccia emergere situazioni analoghe a quelle disciplinate dalla seconda serie di norme (Cass. 6863/93, 3142/80).

3.2. Il principio è stato anche affermato dalla S.C. con riferimento ad una vicenda di "leasing" cosiddetto "traslativo" cui è stata ritenuta applicabile la norma che disciplina la risoluzione del contratto di vendita con riserva di proprietà - art. 1526 c.c. - e, conseguentemente, inapplicabile il regime di cui all'art. 1458, comma 1, seconda ipotesi c.c. (cfr. Cass. 23 gennaio 2000, n. 2069).

4) Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e mancata applicazione della L. 14 luglio 1993, n. 259, che dà esecuzione in Italia alla convenzione UNIDROIT sul "leasing" finanziario internazionale, fatta ad Ottawa il 28 maggio 1988, anch'essa violata, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.

5.1. Ritiene questa Corte che il motivo è infondato e che lo stesso va rigettato.

Anzitutto va osservato che la regolamentazione legislativa del "leasing" è intervenuta solo nei rapporti internazionali con la legge 14 luglio 1993, n. 259 di ratifica ed esecuzione della convenzione Unidroit sul "leasing" finanziario internazionale fatta ad Ottawa il 28 maggio 1988 (legge pubblicata nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 178 del 31 luglio 1993), mentre nell'ambito dei rapporti interni non opera la detta legge (Cass. 26 gennaio 2000, n. 854) Per dette forme di "leasing" non internazionali, opera il diritto interno, il quale si limita a dare una definizione legislativa nell'art. 17, comma 2, della legge 2 maggio 1976, n. 183 secondo cui "per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili acquistati o fatti costruire dal locatore su scelta e indicazione del conduttore che ne assume tutti i rischi e con facoltà di quest'ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione dietro versamento di un prezzo prestabilito".

4.2. Inoltre, come emerge dagli artt. 1 e 4 della L. n. 259 del 1993, questa legge attiene esclusivamente al "leasing" finanziario relativo a beni mobili.

5) Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa interpretazione dell'insegnamento delle S.U. (n. 65/1993) per non avere i giudici di merito esaminato né le clausole pattuite né le eventuali differenze dei valori al momento della stipula con conseguente omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, n. 5, c.p.c.).

Assume la ricorrente che poiché le clausole 2 e 10 del contratto prevedevano la facoltà del riscatto anticipato da parte del concessionario, con l'obbligo del concedente di vendere a terzi il bene in questo caso e corrispondere al concessionario l'eventuale plusvalenza rispetto al valore convenzionale, tanto costituiva un elemento logico a favore della ricostruzione del "leasing" in questione come "leasing" di godimento e non traslativo, con conseguente inapplicabilità dell'art. 1526 c.c.

6) Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato.

Infatti, proprio la possibilità per il concessionario di una realizzare una plusvalenza nel caso di vendita per suo recesso anticipato dal contratto, comporta che i canoni effettivamente versati non coprissero solo il godimento del bene fino al momento della vendita (effetto già realizzatosi), ma anche in parte il prezzo per il suo successivo trasferimento, che, non realizzandosi, giustificava il realizzo da parte del concessionario dell'eventuale differenza in eccedenza, rispetto al valore convenzionale.

7) Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione dell'art. 1526 c.c. e l'insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, a norma dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Assume la ricorrente che la sentenza impugnata non poteva ritenere che il suo motivo di appello sull'esiguità dell'equo compenso (lire 3 milioni mensili) a norma dell'art. 1526 c.c. fosse generico, se solo avesse considerato che, per effetto della detta sentenza, essa concedente non aveva guadagnato né interessi né canoni sulla somma di acquisto di lire 223 milioni.

8.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile.

Infatti la ricorrente propone in questa sede di legittimità un calcolo finanziario-matematico per dimostrare l'esiguità dell'equo indennizzo corrispostole e lamenta che erratamente il giudice di appello ha ritenuto la genericità del motivo di appello in merito, pur potendo effettuare detto calcolo senza sollecitazione della parte.

Sennonché detto calcolo finanziario-matematico, costituendo una questione di merito, non può essere proposto in questa sede di legittimità.

Né il ricorrente assume che dette considerazioni furono avanzate anche al giudice di appello, per cui la genericità della semplice doglianza di eseguità dell'equo indennizzo, non poteva essere ritenuta dal giudice, provvedendo ad individuare d'ufficio quali fossero gli errori argomentativi in cui fosse eventualmente incorso il primo giudice.

8.2. In linea di principio è esatto che il giudizio di appello, a differenza di quello di cassazione, non è a critica vincolata, ma che tuttavia il "thema decidendum" del giudizio di secondo grado è delineato dai motivi di impugnazione, la cui specifica indicazione è richiesta dagli artt. 342, comma 1, e 434, comma 1, c.p.c.

Infatti, per delimitare l'oggetto dell'appello, ai fini del riesame della sentenza impugnata e, quindi, per individuare l'ambito della domanda, occorre far riferimento alle specifiche censure avanzate dall'appellante nell'atto introduttivo del giudizio di riesame.

In particolare, la specificità dei motivi di appello, di cui all'art. 342 c.p.c., deve essere valutata in base all'imprescindibile raffronto tra le ragioni della doglianza, esposte nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado e quelle che nella sentenza sorreggono il punto oggetto dell'impugnazione; con la conseguenza che è inammissibile l'appello con cui la parte, nel riproporre un'eccezione disattesa dal giudice di primo grado, non prenda in esame la motivazione del rigetto e non ne fornisca adeguata critica (Cass. 21 aprile 1994, n. 3809; Cass. S.U. 6 giugno 1987, n. 4991 che ha sottolineato il rapporto proporzionale che deve esistere tra l'articolazione dei motivi e la minore o maggiore specificità, nel caso concreto, della motivazione della sentenza impugnata).

Ed infatti la cognizione del giudice nel giudizio di appello - che non è "iudicium novum" con effetto devolutivo generale, ma solo una "revisio prioris istantiae" - resta circoscritta alle questioni dedotte dall'appellante attraverso l'enunciazione di specifici motivi.

La specificità dei motivi esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni della sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; di modo che alla parte volitiva dell'appello deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Cass. 30 maggio 1995, n. 6066; Cass. 24 marzo 2000, n. 3539; Cass. 24 settembre 1999, n. 10493; Cass. 26 giugno 1998, n. 6335; Cass. 27 luglio 2000, n. 9867).

Non essendo ciò avvenuto nella fattispecie, correttamente la sentenza impugnata ha dichiarato generico il motivo di appello.

9) Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla per le spese non essendosi costituito il fallimento intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese di cassazione.